Chi ha cercato di rubarci la lingua, ricordi e riflessioni di un maestro.
Quando mi è stato chiesto un parere sul ruolo della lingua sarda in un contesto italofono, ho avuto un attimo di perplessità nel rispondere in modo esauriente e adeguato. Poi ho ricordato un episodio che mi aveva coinvolto. Un amico, provetto muratore, gestiva la costruzione della mia casa in quel di Tissi. Io collaboravo con lui nella funzione di manovale apprendista. Mi stupì non poco quando diede un ordine perentorio in sassarese: “Dammi lu cimentu!”
Lo guardai perplesso e gli chiesi il perché lui, logudorese per storia e pratica, si rivolgesse a ‘lu maniari’ in una lingua che doveva essere a lui estranea. Sorrise bonario, tentando di spiegarmi una cosa ovvia per tutti: “Un masthru avveru, fabedda in sassaresu”.
Risi di gusto, apprezzando quella che sul momento mi parve una simpatica battuta. Non capivo, allora che Salvatore, così si chiama quel genio degno di Marshall McLuhan, aveva espresso un concetto apparentemente semplice: la lingua di un popolo è infatti cultura, evoluzione storica, tradizione e innovazione, specchio lento, ma perpetuo degli uomini. Era avanti quell’uomo: aveva capito che la lingua si adegua al cambiamento della società, e non si sentiva sminuito nel concedere ad altri la priorità linguistica settoriale. Parlava il sassarese come lingua tecnica, come l’inglese per l’informatica o l’italiano per la musica o il francese per la danza, ma comunicava in logudorese sentimenti, affetti, relazioni, rapporti sociali.
Sta tutta qui la differenza, e non è cosa dappoco.
Il dibattito è ricco e variegato: basterebbe riflettere sulle diverse e divisive posizioni sulla Limba sarda comuna, per capire quanta strada ci sia ancora da percorrere.
Io, come penso moltissimi miei coetanei, soprattutto cittadini, nel passato mi sono chiesto più volte che senso avesse il dibattito sull’autonomia sia politica sia linguistica in questo mondo sempre più globalizzato. Leggevo, m’informavo, senza riuscire a capire perché il problema linguistico fosse diventato quasi prioritario rispetto ai grandi problemi economici che stavano travagliando l’intero pianeta. Sembrava di essere afflitti dalla sindrome del soldato giapponese che, ignaro della fine della guerra, difendeva un avamposto sperduto e ininfluente. Ma, si sa, la verità spesso è figlia del caso. M’imbattei, quasi senza volere, in una bellissima poesia siciliana di Ignazio Buttitta.
Lingua e dialettu (1970)
Un populu/mittilu a catina/spugghiatulu/attuppatici a vucca/è ancora libiru./Livatici u travaghiu/u passaportu/a tavola unni mancia/u lettu unni dormi/è ancora riccu./Un populu diventa poviru e servu/quannu ci arrubbanu a lingua/addutata di patri:/è persu pi sempri./Ignazio Buttitta
Un popolo / mettetelo in catene / spogliatelo / tappategli la bocca / è ancora libero. // Levategli il lavoro / il passaporto / la tavola dove mangia / il letto dove dorme, / è ancora ricco. // Un popolo /diventa povero e servo / quando gli rubano la lingua / ricevuta dai padri: / è perso per sempre.
A me è costato molto, in termini di tempo, d’impegno, arrivare a capire. Invidio i giovani (sia chiaro non per l’età, che sarebbe banale e ovvio), invidio i giovani perché hanno la fortuna di nascere in un’epoca di grandi fermenti linguistici, che io e i miei coetanei non abbiamo vissuto. I coinvolgenti interventi nella collana “It’s wonderful life- itte ispantu est su mundu” e l’attenzione con cui il “Salotto letterario” ne segue gli sviluppi ne sono la prova.
Pier Paolo Pasolini in sua pubblicazione scriveva: “Il dialetto diventa lingua, quando viene scritto e adoperato per esprimere i sentimenti più alti del cuore… per esprimere le proprie idee, il proprio sentire, i propri desideri”.
Ho spesso chiesto il significato delle parole agli anziani, ed è così che è nato il mio teatro dialettale nella scuola, e venivo inondato di ricordi, sfumature, vita vissuta. Una parola poteva diventare storia con tutta la naturalezza possibile. Quegli anziani diventavano straordinari comunicatori di conoscenze. Chiedere a un vecchio “come si dice” una parola in dialetto è sempre un’avventura affascinante, perché difficilmente la puoi chiedere a un vocabolario multidialettale, benché illustrato e graficamente pregevole.
I dialetti sono importanti. Giocare a capirli, a comprenderli, potrebbe essere un esercizio assai utile alla caduta di barriere pregiudiziali e pregiudizievoli fra gente che, alfine, si scopre identica ovunque essa abiti e qualunque attività essa svolga.
Tullio De Mauro, in un’analisi sull’utilizzo del dialetto ha scritto: “Essere degli integralisti del dialetto è disdicevole, è persino comportamento antisociale se lo si parla e attorno c’è chi non lo comprende. Ma essere, nella lingua, degli italianisti a tutti i costi significa a sua volta non avere radici, peggio ancora averle estirpate.”
La mia esperienza ha seguito un percorso tortuoso, ma credo esemplare per ogni presunto cittadino. Ricordo, e ancora oggi ne provo vergogna, che durante la mia infanzia mi capitava, la domenica, di sentire provenire dalle case di molti abitanti del centro storico di Sassari un canto, allora definito genericamente sardo, che volava di casa in casa e che, secondo me, italofono convinto, rappresentava la voce di una cultura subalterna. Facevo una considerazione molto semplice: è la voce del centro storico, del popolo incolto. La mia coscienza era a posto, le mie scarse conoscenze culturali appagate. A mia giustificazione c’era la giovane età e il lavaggio del cervello che la scuola operava nei miei confronti e in quelli dei miei coetanei. Ho conosciuto anch’io quei maestri della leggenda, quelli che accarezzavano le mani con una verga chiunque parlasse in dialetto. I miei genitori pensavano, ingenuamente, che parlando la lingua italiana avrei avuto qualche chance in più nella vita. Insomma, scuola e famiglia s’incontravano e si capivano alla perfezione; la prima perché era il braccio culturale del potere fra la gente, da convincere e manipolare, la seconda perché ancora legata al timore reverenziale verso il potere e la scuola che lo rappresentava. Ho impiegato qualche anno per capire che mi era stata tolta una fetta importante della mia formazione, che si era tentato di non darmi radici. Nel mio caso era facile: un padre ciociaro, una madre osilese ed io nato e cresciuto a Sassari. Ero un vero e proprio mosaico linguistico, facile da convertire. Ero uno ‘chena radizi, quasi un furisteri in casa mea’.
Lo studio in quel di Pisa mi ha costretto a riflettere su quella mancanza di radici, soprattutto quando mi chiedevano quale fosse la mia residenza. Mai rispondevo, come ogni tanto mi piace fare adesso, “sono sardo”. Immancabilmente tendevo a sottolineare la mia matrice cittadina, il non appartenere a quella fascia di persone che rifiutavano di migliorare e restavano legate a una cultura poco significativa e marginale. Ci volle qualche tempo e non poche delusioni per rendermi conto che quella cultura che rifiutavo era la mia cultura, che quella gente che guardavo con il sorrisino ironico del cittadino imbecille era la mia gente, che la storia che ritenevo altra era la mia storia. Lentamente cominciai a capire che ciascuno è il luogo dove è nato, è la lingua che lo connette con l’ambiente, sono le storie legate a quella lingua.
Per mia fortuna ho incontrato il teatro, dove, però, almeno all’inizio, cercavo, con quelli come me amanti del palcoscenico, di riprodurre modelli provenienti da terramanna, da quella penisola che ci aveva mortificati con la nostra complicità. Era la fine degli anni sessanta e anche Pasolini, prima strenuo difensore delle culture regionali, cominciava a mutare opinione sui dialetti e sull’italiano, prendendo una bella cantonata, sosteneva che era nato l’italiano e che il dialetto stava morendo, e che avremmo parlato un italiano tecnologico. (Tullio de Mauro) Mi chiedo che cosa avrebbe detto oggi di fronte all’invadenza degli anglismi.
I dialetti si trasformano, e non si tratta solo di banale italianizzazione, di parole prese in prestito dall’italiano, anche se l’avvicinamento progressivo del dialetto alla lingua è un fenomeno per certi aspetti inevitabile. Il fatto interessante è che quelli che parlano prevalentemente dialetto se ne vanno anche per strade loro, continuano a inventare parole nuove e a riadattare quelle vecchie. (Ibidem)
Gli intellettuali, quelli che vivono in città, pensano che per i dialetti non ci sia più futuro e ormai siano vecchi residui linguistici.
Riuscii a trovare soddisfazione al mio bisogno di radici, quando incontrai la Compagnia Teatro Sassari e il suo mitico regista, Giampiero Cubeddu, anche lui coinvolto in un processo che possiamo definire di recupero della storia della città di Sassari. Era un progetto ambizioso, che stava, sia pure tra alti e bassi, ridisegnando le nostre conoscenze sulla nostra storia e sulla nostra lingua. Fortuna volle che in quel periodo raccontasse quelle storie di cui da ragazzo mi vergognavo e consideravo sottocultura, Giovanni Enna, splendido trasmettitore di conoscenze dimenticate e sottovalutate.
L’esperienza teatrale non fu sufficiente, perché mi ponevo sempre la stessa domanda senza risposte: “Cosa possiamo fare per creare l’humus adatto a far riattecchire la nostra lingua e la storia ad essa connessa indissolubilmente?”
Ritenni non più sufficiente recitare nel teatro dialettale e proporre alla città quadri di passato, troppo immobili per incidere in modo indelebile fra i parlanti, che continuavano a ridere di un passato che per fortuna non sarebbe più tornato. I commenti all’uscita del teatro erano significativi. “Ti l’ammneti di chissu…”, “Ma Sannia era avveru cussì grassu?”, “E Trappadè? E Monello? E Cosci Bianca?”
Capii che era necessario andare oltre. Il primo passo era stato fatto, si trattava d’iniziare un percorso virtuoso che portasse le nuove generazioni verso la comprensione di un mondo che rappresentava le radici, il passato sul quale era stato costruito quel presente che stavano passivamente accettando.
La mia posizione d’insegnante elementare mi è stata estremamente utile. Ho iniziato, con la comprensione dei dirigenti e la diffidenza di qualche collega e di qualche genitore, al recupero delle nostre tradizioni, invitando in classe falegnami, muratori, nonni con storie da raccontare. Abbiamo recuperato giochi d’antan, senza mitizzarli, senza quell’agiografia che troppo spesso ricama i ‘c’era una volta’. Abbiamo smitizzato con coraggio i luoghi comuni e, con l’entusiasmo che solo i bambini sanno avere, abbiamo iniziato un percorso che, utilizzando la fiaba come strumento più congeniale al mondo dei bambini, dalla drammatizzazione di piccole storie ci ha portato alla realizzazione di opere teatrali più organiche. Il tutto senza trascurare l’organizzazione e tutto il processo teatrale connesso, come testo, scenografia, costumi, ecc; curavamo anche la parte tecnica, perché recitare in dialetto non significa tralasciare la forma. La nostra attenzione era rivolta, però, quasi esclusivamente alle storie e al modo di raccontarle.
Troppo spesso gli intellettuali, soprattutto di matrice linguistica italica, fate pochissime rare eccezioni, quando parlano di teatro hanno davanti agli occhi il palcoscenico, la macchina scenica e tutto ciò che ha contribuito a produrre il teatro della parola e del gesto, da Goldoni fino ai nostri giorni; cioè da quando le regole hanno iniziato a uccidere lo spontaneismo e l’improvvisazione. Questo processo di sterilizzazione dell’umano ha condotto i “professionisti” del palcoscenico a costruire, con precetti ridicoli e mutilanti ogni forma di regionalismo, dei manuali del perfetto attore e fondare delle scuole, pomposamente chiamate accademie, dove hanno importanza le è o le é, le ò o le ó, e dove l’acqua è sempre e solo friżżante. Hanno costruito, questi soloni del teatro, una casa di cemento da cui le idee non possono più fuggire e, molto più grave, in cui le novità non possono entrare. Anch’io per lungo tempo, e per personale frequentazione, ho ceduto a questa visione pseudo nobile del teatro, a questa struttura altra rispetto alla società di cui finge di riprodurre i modelli culturali. Per me attore alle prime armi era in fondo una scelta rassicurante, anche se proprio quando io sceglievo erano gli anni sessanta, gli anni dei grandi cambiamenti anche nel teatro. Le certezze di quegli anni si sono sgretolate lentamente. Si sa: le certezze sembrano costruite per essere demolite; e il più delle volte è il frutto del caso. Per quel che mi riguarda tutto ha avuto inizio quando ho avuto la fortuna di assistere a qualcosa che allora non m’interessava e che, con la prosopopea tipica degli italofoni, consideravo primitiva e di scarso portato culturale: l’esibizione dei cantori sardi in un cimento poetico con tema la pace. Dopo un senso di fastidio per quelle voci arcaiche, che trasmettevano sensazioni di mondi ormai scomparsi e senza più legami con la realtà, non potendo fare diversamente, ho ascoltato; ho ascoltato e, pur non capendo subito quelle voci che venivano anche dal mio passato, ho iniziato un percorso virtuoso che mi ha permesso di liberarmi delle distorsioni culturali che mi avevano manipolato, togliendomi l’anima, rubandomi la mia storia, annientando le mie radici linguistiche, negandomi ogni identità regionale. Con il senno di poi posso dire che la scuola aveva svolto magnificamente il suo compito di demolitore di ogni traccia di appartenenza linguistica e culturale alla mia terra di nascita. Per fortuna sono cambiati sia la scuola sia gli insegnanti: nessuno si sognerebbe oggi di penalizzare un alunno che utilizza frasi idiomatiche di Sardinia o semplici parole in Limba. Nella strada verso l’acquisizione di una diversa visione della lingua di Sardinia un grosso merito, anche se tardivo, va attribuito a pochi insegnanti e dirigenti, che, con grande entusiasmo e competenza, consentono di aprire percorsi didattici e formativi nuovi ed efficaci. La Regione, nonostante abbia la possibilità d’inserire percorsi regionali nelle programmazioni, nulla o quasi fa in questa direzione.
Sui peccati della scuola fondamentale è stato il libro “Sa limba est s’istoria de su mundu” di un meraviglioso e straordinario Franziscu Masala. A questo proposito credo che tutti i sardi siano debitori a quest’uomo eccezionale che è morto fisicamente il 23 gennaio 2007. Noi sardi dovremmo, come si fa per i grandi di ogni popolo, far vivere nei cuori e nelle coscienze di tutti il suo contributo alla nostra lingua e alla nostra cultura.
“Sa limba est s’istoria de su mundu” è un libro dove in limba si racconta che la cosa più importante per un popolo sia riappropriarsi del proprio passato per mezzo dello strumento che più di ogni altro è la sua radice: la lingua. Quella lingua sarda che ancora stenta a farsi strada, dopo secoli di dominazioni, contaminazioni, speranze e tentativi insufficienti.
Racconta Masala sulla scuola. “A sos tempos de sa pizzinnia, in bidda, totus chistionaiamus in limba sarda. In domos nostras no si faeddaiat atera limba. E deo, in sa limba nadia, cominzei a connoschere totu sas cosas de su mundu. Ma, a sos ses annos, intrei in prima elementare e su mastru de iscola proibeit, a mie e a sos fedales mios, de faeddare in s’unica limba chi connoschiamus: depiamus chistionare in limba italiana, «la lingua della Patria», nos nareit, seriu-seriu, su mastru de iscola. Nois no connoschiamus sa limba italiana e, pro cussu, nos istaiamus mudos de fronte a su mastru ma, tra nois, sighemus a faeddare in sa limba de mama. Su mastru, cando nos intendiat alleghende in sardu, nos daiat ses azotadas subra sas manos, tres pro donzi manu. E, tando, istaiamus mudos puru tra nois. Gai, totus sos pizzinnos de idda, intraiant in iscola abbistos e allirgos e nde bessiant tontos e cari tristos.”
Questa era la scuola fino agli inizi degli anni cinquanta del secolo scorso. Verso l’accettazione della limba de mama passano ancora tanti anni e i progressi, lo dobbiamo rimarcare con grande dispiacere e delusione, sono stati lenti o inesistenti, e quasi sempre ostacolati da un’istituzione scolastica nazionale retriva e incapace, nella migliore delle ipotesi, e dalla politica locale in modo cieco, privo di ogni autentica prospettiva culturale.
Ho sempre ritenuto, e questo ho cercato di fare con i miei alunni, che un popolo ha bisogno di ripercorrere s’istoria per capire di essere popolo, per superare divisioni figlie di un mal compreso senso di appartenenza. Limba non significa distacco da terramanna, da quel continente che pur ci ha sempre considerati qualcosa di diverso, qualcosa di sussidiario: una terra da depredare di tutte le sue ricchezze prima, un luogo da fermare in una foto d’epoca per le vacanze poi.
Ciascun insegnante cerca un modo diverso per ripercorrere le fil rouge che attraversa la nostra storia; io ho ritenuto che niente possa rappresentare questa linea che unisce le nostre origini con il presente meglio del teatro. Perché comprende, nel suo formarsi, tutto ciò che noi oggi consideriamo bagaglio culturale di un popolo: il rito, il mito, tutta la tradizione orale, tramandata di padre in figlio come un tesoro da custodire e divulgare. Noi sardi abbiamo la fortuna di avere ancora la possibilità di ricostruire i percorsi orali che hanno permesso alle leggende e ai miti di arrivare fino a noi, grazie a quello che fino a poco tempo fa era considerato un limite: vivere in una società con “apparenti” scarsi cambiamenti culturali e sociali. Agli studiosi è delegato il compito di scavare come archeologi e trovare quel meraviglioso tesoro che i nostri antenati hanno custodito e tramandato per noi, per ridare spessore alla nostra identità e alla nostra diversità. In questo percorso svolge un ruolo rilevante quello che viene definita letteratura orale, custodita nei cuori dei sardi.
Mi sia consentito di citare il più grande di tutti i sardi quell’Antonio Gramsci, oggi nel mondo secondo solo a Dante, e al quale lo scrittore Kenzaburo Oe, autore di “Insegnaci a superare la nostra pazzia”, gli ha dedicato il Premio Nobel per la letteratura ricevuto nel 1994.
Nelle Lettere dal carcere Antonio Gramsci scriveva, ponendo fine alla discussione sull’uso del dialetto sardo/lingua:
«Franco mi pare molto vispo ed intelligente: penso che parli già correntemente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispiaceri a questo proposito. È stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente in sardo. Ciò ha nuociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi fare questo errore coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto ma una lingua a sé, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino più lingue, se è possibile. Poi l’Italiano che voi gli insegnerete sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile; egli non avrà contatto con l’ambiente generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi, ed un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza. Ti raccomando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire, tutt’altro.» (A. Gramsci, Lettere dal Carcere, 1927).
Gianni Avorio