Don Milani.
Sono passati più di cinquanta anni dalla data di morte di don Lorenzo Milani, che dedicò la sua intera vita agli ultimi. Come spesso mi è capitato nell’affrontare temi e discussioni su grandi poeti e scrittori, anche nell’affrontare una figura come quella del priore di Barbiana mi sono sentito inadeguato e profondamente a disagio. Ho sempre pensato che per descrivere persone come Lorenzo Milani siano insufficienti le parole che normalmente utilizziamo per chi ha contribuito a cambiare in modo radicale il pensiero umano e nemmeno si può attingere ai superlativi tanto diffusi fra gli agiografi adusi ai toni esagerati. Leggi le sue parole e cerchi rapidamente di fare un bilancio delle tue azioni, anche le migliori, e lui ti fa sentire insufficiente e inadempiente. Cerchi mille giustificazioni per quella volta in cui la tua carità si è rivelata un po’ pelosa. Per pareggiare il conto con la mia coscienza in crisi frugo nella memoria e ne cavo fuori un lungo rosario delle volte che avrei potuto ma non ho fatto, sommergendo di mille inutili giustificazioni il mio personale egoismo. E cerco spesso, io laico, risposte nelle parole di quell’uomo che ha sfidato senza tremare i potenti. Mi era capitato nel passato di frugare fra le parole di don Lorenzo per cercare risposte che non trovavo e, anche se gli scritti del priore di Barbiana non mi indicavano con chiarezza la via, mi sentivo in comunanza con quell’uomo capace di sfidare il comune sentire quando non rispondeva a quanto aveva predicato Gesù di Nazareth. Era scomodo don Milani, era scomodo e un po’ tutti i poteri si sentivano solidali nello stroncarne l’impeto ‘rivoluzionario’.La stessa Chiesa cattolica vedeva quell’uomo, malfermo in salute e dalla irriducibile volontà nell’ispirarsi ai Vangeli, una sorta di mina vagante. Credo che, dopo più di cinquanta anni dalla morte, i tempi per rispolverare gli scritti di don Milani siano maturi. La società italiana è profondamente cambiata, nel soglio di Pietro siede un uomo che sul messaggio di carità sta impostando il suo apostolato, ma in modo incredibilmente anomalo la società e molti ‘leader’ politici sembra abbiano dimenticato parole come “amare il prossimo” e “aiutare gli ultimi”. Don Milani era questo e molto di più, e quelle parole erano per lui magistero e regole di vita. Ha fatto, seguendo il Vangelo come unica stella polare, una scelta per lui semplice, ma da molti fraintesa: stare sempre dalla parte dei poveri, i figli prediletti da Dio. A loro ha dedicato la sua breve esistenza, senza mai tentennare o scendere a compromessi. Erano anni difficili quelli del suo apostolato, erano anni nei quali il mondo era diviso in due dalla famigerata ‘cortina di ferro’, e la Chiesa sembrava avere fatto una scelta di parte, schierandosi con i paesi occidentali contro la minaccia comunista. Don Milani, forte del messaggio evangelico, non divise il suo cuore in due e non scartò nessuno dalle sue preghiere, ma scelse consapevolmente di stare con gli ultimi, ovunque fosse la loro dimora. A riprova di questa sua visione ‘universale’ vale la pena ricordare quanto era solito ripetere ai suoi allievi: «Le frontiere sono concetti, non esistono».L’amore di don Lorenzo per gli altri non era interessato, gli sgorgava a fiotti dal cuore. Lo era fino al punto da scrivere nel suo testamento: «Caro Michele, caro Francesco, cari ragazzi, (…) ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto.» Di fronte a questo moderno apostolo ci si sente inadeguati e le parole rischiano di sminuirne il valore. Era in anticipo sui tempi, come lo sono i profeti, e parlava anche alle generazioni future che sembrava avessero smarrito la via. E puntava il dito accusatore contro il capitalismo feroce e rapace, e la sua voce diventava di tuono quando lo accusava della povertà in cui teneva, per meschini calcoli di bottega, la stragrande maggioranza degli esseri umani. Colpiva duro come Gesù nel tempio e non arretrava di un millimetro. Ha resistito come un cristiano nel Colosseo al processo ispirato da una ventina di cappellani militari in congedo che lo accusavano ingiustamente di viltà. Tutto ebbe inizio con un articolo del 12 febbraio 1965 pubblicato dalla Nazione, che riportava un ordine del giorno votato dai cappellani militari in congedo. Il casus belli, che scosse la coscienza di don Lorenzo era rappresentato dalla frase finale: «Considerano [i cappellani] un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta “obiezione di coscienza” che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà».Don Milani, come d’abitudine discusse con i suoi ragazzi della frase che riteneva offensiva e non cristiana, e con loro decise di rispondere ispirandosi al Vangelo, sua sola bussola morale. «Le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto. Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo e della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se son uomini che per le loro idee pagano di persona». Quello che scatenò l’ira dei “bellicisti” e dei conservatori cattolici fu non tanto la diffusione del documento, quanto il fatto che la risposta alle dichiarazioni dei cappellani militari, offerta inutilmente a tutti i giornali italiani senza successo, spaventati dalle parole del priore di Barbiana, fu pubblicata esclusivamente dal periodico comunista ‘Rinascita’, allora diretto da Luca Pavolini. La cosa fu mal digerita da molti esponenti della Chiesa, ma soprattutto da un gruppo di ex combattenti che denunciarono Lorenzo Milani e Luca Pavolini. L’essere accomunato alla rivista comunista ferì notevolmente il priore che se ne lamentò: «È dunque per motivi procedurali cioè del tutto casuali ch’io trovo incriminato con me una rivista comunista. Non ci troverei da ridire nulla se si trattasse d’altri argomenti. Ma essa non merita l’onore d’essersi fatta bandiera di idee che non le si addicono come la libertà di coscienza e la non violenza». Non volle essere difeso da avvocati di fama e ne accettò uno d’ufficio solo dopo avere concordato la linea di difesa. Le sue riflessioni furono affidate a una lunga lettera nella quale spiegava i motivi del suo dissenso con l’ordine del giorno deciso dai cappellani militari in congedo della Toscana. Il processo, che segnerà l’ultimo tratto di vita terrena del priore di Barbiana, si concluse con una assoluzione in primo grado il 15 febbraio 1966. Il pubblico ministero, non soddisfatto dell’assoluzione, ricorse in appello e il processo d’appello si tenne il 28 ottobre 1967. Poiché don Milani era morto il 26 giugno, si procedette solo contro Luca Pavolini, che venne condannato a cinque mesi e dieci giorni. Solo di fronte alla morte la giustizia si arrese e decise il non luogo a procedere per morte del reo. L’aspetto buffo della questione sta nell’impossibilità di leggere le motivazioni del tribunale, che non vennero mai pubblicate perché la Cassazione considerò estinto il reato per sopravvenuta amnistia. Questo del processo è solo l’aspetto più appariscente di una vita dedicata completamente agli altri, anche a costo di urtare le gerarchie ufficiali della Chiesa e le istituzioni politiche. Per Lorenzo Milani l’uomo viene sempre prima di ogni sovrastruttura creata per proteggerlo o controllarlo. Arrivare al processo è stato quasi un percorso verso un suo personale Calvario. Non l’ha scelto, perché non era aduso a esibizionismi “sociali”, ma gli è capitato, orchestrato da chi avrebbe dovuto condividere con lui il messaggio di Cristo e del Vangelo. Ha sopportato con serena rassegnazione sia la malattia, che lo ha portato alla morte, sia le calunnie contro la sua autentica fede, che ha sempre difeso contro tutti e tutto. Ancora prima aveva scelto di realizzare quell’àgape che è sempre stata la sua missione di uomo di Cristo. Per lui non si trattava solo di amore e fratellanza, ma assumeva un significato incredibilmente nuovo: era un amore a senso unico che non chiedeva nulla in cambio. Come sostenne in tempi recenti mons. Vincenzo Paglia (arcivescovo, presidente della Pontificia accademia per la vita e gran cancelliere del Pontificio istituto Giovanni Paolo II. Consigliere spirituale della Comunità di Sant’Egidio e presidente della Federazione Biblica cattolica internazionale.) l’àgape “sta al di sopra di tutto: della profezia, dell’ineffabile lingua degli angeli che estasiava i corinzi, della speranza e della stessa conoscenza, così misera in questo mondo ove conosciamo Dio solo confusamente, come attraverso uno specchio, dentro ‘enigmi’. L’agape è superiore persino alla fede. Tutto passerà, tranne l’amore. Ed è la ricchezza più genuina della vicenda cristiana.” Le parole di mons. Paglia dipingono alla perfezione la missione di don Lorenzo Milani. La sua morte ha suscitato rimpianto e partecipazione solo fra quegli ultimi che lo hanno conosciuto e che lui ha eletto a missione, uomo fra gli uomini, cristiano fra laici e non credenti, peccatore fra peccatori.
Gianni Avorio
