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8 Luglio 2020  |  By Sardegnaedintorni In Cultura, Libri, Viaggi

Per la collana “Donne, fèminas”: Gianni Avorio

Quando le fotografie parlano

Se i quadri si potessero spiegare e tradurli in parole, non ci sarebbe bisogno di dipingerli.

Paul Courbet

Se scatti fotografie, non parlare, non scrivere, non analizzare te stesso e non rispondere a nessuna domanda.

Robert Doisneau

Ho sempre considerato una “forzatura” descrivere con le parole un’immagine, quasi un’offesa nei confronti di chi aveva de-scritto usando strumenti diversi dalle parole. Ho ritenuto la cosa figlia della prevenzione dei “critici” nei confronti degli autori di quadri, sculture, fotografie o qualsiasi altra espressione iconografica. Mi trovo, nei fatti, in quello che Voltaire definì “impasse” (labirinto, vicolo cieco, e non solo ostacolo o difficoltà). A questo punto, la domanda è, ovviamente: “che fare”? La soluzione, se di soluzione si può parlare, dovrebbe essere una intimistica riflessione sui contenuti dell’opera e sul messaggio veicolato. Tacere e guardare stupiti le immagini, che non hanno bisogno di traduttori, perché parlano direttamente al nostro cuore, sarebbe la cosa giusta. Ho guardato quelle due figure che sforano i grigi, materializzandosi e prendendo forma, e ho deciso di barare e rompere un patto che avevo sempre fatto con me stesso: mai utilizzare le parole per descrivere cose che parlano da sole, e questa foto di Gigi Cabiddu Brau è una fantastica sinfonia di “parole” e sfumature poetiche. La poesia, ho sempre pensato, si gode, non si discute; non si pesano con il bilancino del farmacista i sogni. E, per soprammercato, non si soffoca con un vortice di parole la fantasia. Ha ragione Paul Courbet, e quanto sostiene per la pittura vale per la gemella tecnologica: la fotografia. Non si deve intorbidire il viaggio nel mondo dell’immaginazione creato dal fotografo, non si devono utilizzare parole come filtri o effetti speciali per dare concretezza alle immagini e chiarire eventuali progetti creativi dell’autore. Qualunque cosa si dica, si sta barando nel cercare di metterci sullo stesso piano del fotografo o, peggio, nel suggerire soluzioni neanche ipotizzate dall’autore. Diventa, quella del critico, una sfacciata operazione di sostituzione, che talvolta appaga l’ego di chi si lancia in acrobatiche evoluzioni linguistiche prive di reale significato, arrivando alla legalizzazione dell’assurdo.

Vale la pena citare un caso emblematico della confusione che regna nel mondo della critica, soprattutto d’avanguardia. Negli anni Settanta del secolo scorso, Sergio Saviane, giornalista e corsivista di punta della rivista L’Espresso, pubblica un commento sulla presentazione di una mostra di un pittore semisconosciuto. La penna feroce del giornalista gioca con alcune espressioni al limite del comprensibile presenti nel testo, calcando la mano sulla locuzione “tempo uovo” che sarebbe il cuore della pittura dello sconosciuto ‘Leonardo’. Una rivista d’avanguardia interviene e, dopo i complimenti d’ufficio al giornalista, dichiara che il concetto è chiarissimo e si lancia in una spericolata spiegazione che complica ulteriormente la comprensione del concetto. Il povero Saviane pare soccombere sotto il peso della dotta disquisizione, quando arriva il chiarimento del pittore: aveva ragione Saviane! Il tempo uovo era una sua invenzione ed era stato costretto a scriversi da sé la presentazione, perché i critici consultati avevano preteso parcelle da capogiro che lui non poteva permettersi. Aveva giocato con le parole creando abbinamenti assurdi, ma d’effetto, rifacendosi al modo di scrivere fumoso di molti critici/criptici.

Queste riflessioni, apparentemente poco inerenti alla splendida foto di Gigi Cabiddu Brau, mi stanno togliendo il gusto, tutto intimo e personale, di esprimere quanto l’occhio trasferisce al mio cervello e di metterne in evidenza le sensazioni. Mi sento, guardando quei grigi che s’intersecano creando magiche realtà, immerso (ah, le parole!) nell’incantata realtà descritta da Leopardi, di cui l’immagine sembra una fedele rappresentazione.  

«Da quella parte della mia teoria del piacere dove si mostra come degli oggetti veduti per metà o con certi impedimenti ec. ci destino idee indefinite, si spiega perché piaccia la luce del sole o della luna, veduta in luogo dov’essi non si vedano e non si scopra la sorgente della luce; un luogo solamente in parte illuminato da essa luce; il riflesso di detta luce e i vari effetti materiali che ne derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov’ella divenga incerta e impedita e non bene si distingua, come attraverso un canneto, in una selva, per li balconi socchiusi ec. ec.; la detta luce veduta in luogo, oggetto ec. dov’ella non entri e non percota dirittamente, ma vi sia ribattuta e diffusa da qualche altro luogo od oggetto ec. dov’ella venga a battere.» (Giacomo Leopardi, Zibaldone, Frammenti 1744-1745)

È la luna di Leopardi quella che sembra penetrare attraverso i vetri della finestra, e le due figure sfumate vivono una realtà autonoma rispetto all’immobilità della scena. È un trionfo di luci quello che Cabiddu celebra, un trionfo di luci e ombre che riportano alla mente stupende atmosfere retrò.

Parafrasando  il poeta greco Simonide, possiamo affermare che questa fotografia è una poesia silenziosa.

Gianni Avorio

Foto di Gigi Cabiddu Brau

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