Il telecomando
La parola che riempie le nostre giornate e sequestra i nostri pensieri è “angoscia”. Viviamo avvolti da una cupa nube di disperazione e ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo tendono a spegnere ogni nostra residua speranza. Tutto ciò che ci circonda sembra tramare vigliaccamente per spegnere il sorriso: le televisioni, fedeli compagne di giornate interminabili, sputano disperazione e hai l’impressione che siano gestite da qualche direttore sadomaso. Anche le trasmissioni, che per vocazione e scelta “culturale” dovrebbero puntare sul nulla incartato in ricca confezione regalo, si pregiano di coinvolgere il virologo di turno e l’esimio epidemiologo, possibilmente sfoggiante un cognome dalle chiare origini italiche, precettato in qualche illustre università statunitense, capace di distribuire con dotto linguaggio disperazione e sfiducia nella capacità stessa della scienza che rappresentano. Al limite della rassegnazione cerco conforto in quel piccolo oggetto che in altre occasioni mi aveva permesso di evadere dal quotidiano non sempre piacevole e talvolta venato di sofferenza. Guardo fiducioso quel piccolo oggetto nero ricco di tasti colorati, noto ai più come telecomando. In altre occasioni è diventato finestra sul mondo e palla di cristallo per il futuro. Con lo stesso spirito e le medesime aspettative, come un figlio affettuoso o un innamorato in cerca di conforto, lo accarezzo dolcemente. Probabilmente ho riposto in quello strumento, figlio di una tecnologia capace di portare il mondo in casa, troppa fiducia e mi ritrovo sprofondato in una angoscia senza fine. Quel telecomando, che ha accompagnato la crescita economica della nazione, è diventato la sintesi dell’incertezza, e quei piccoli tasti, che nei nuclei familiari manifestavano il potere di regia di padri padroni, ora segnano i ritmi delle nostre preoccupazioni. Nelle famiglie si vive di appuntamenti cadenzati dai TG e ogni tentativo di sfuggire alla triste elencazione di contagiati e defunti si scontra ineluttabilmente con l’omologata regia collettiva gestita da un feroce e oscuro Grande Fratello. Sono inutili i tentativi di variare programma per sfuggire alla minacciosa programmazione. Quando si è sicuri di essere approdati nel sonnolento e rassicurante mondo del niente assoluto, dove fanno capolino starlette modellate dalle abili mani di valenti chirurghi, machi palestrati incapaci di qualsiasi pensiero esulante i bisogni fisici primari, conduttori emissari del potere e votati all’ubbidienza cieca, propagatori di banalità in grado di instupidire il senso comune, esperti dei più disparati rami del sapere in grado di confezionare pillole di sapienza, “alla portata di tutti”, spunta all’improvviso il messaggero dell’apocalisse, per rallegrare gli animi troppo portati alla frivolezza delle cose semplici. Disperatamente pigio un tasto dopo l’altro, ma vengo inseguito, canale dopo canale, dal funereo tamburellare del “Ricordati che devi morire”, che tanto ci aveva divertito nel film “Non ci resta che piangere” con Troisi e Benigni. Rispondere come Troisi (Mò me lo segno) non è di grande aiuto, ma, al contrario, acuisce il senso di disperazione. Poiché sono portatore ‘sano’ di una dose notevole di ottimismo, tento la sorte e decido di navigare tra le centinaia di canali che la scatola magica esposta in salotto è in grado di offrire. Punto senza esitazione sulle reti di Stato (Rai 1, 2, 3) e affondo speranzoso fra i cuscini della mia poltrone preferita, ma vengo travolto da programmi fotocopia che rovesciano la sintesi dell’apocalisse che sta travolgendo storia e società, con toni da tregenda degni della tragedia greca. Afferro il telecomando e vado diritto verso la galassia Mediaset, dove subisco un uppercut che manderebbe per le terre qualunque peso massimo del mondo: due figuri recitano l’Eterno riposo e tendo involontariamente la mano alla ricerca dei classici amuleti apotropaici. Mi sento depresso, triste, con l’ottimismo triturato e gettato nel water. Mi rendo conto di avere ancora qualche carta da giocare e punto senza esitazione sulla Sette e vengo piacevolmente travolto dalle più diverse pubblicità. Non m’interessa ciò che raccontano, ma è la prima cosa normale in quel funerale collettivo subito sulle altre reti nazionali. Mi gusto, come uno zefiro ristoratore, piogge di antidolorifici, materassi progettati per procurare sonni e sogni meravigliosi, poltrone per tutte le stagioni, merendine che ti inoculano il diabete al solo sentirne parlare, pelati che ti trasformano in cuoco provetto abbinandoli alla pasta giusta. Quel sereno momento di normalità viene bruscamente interrotto da una squittente signora che riassume tutto il dizionario medico Larousse. Sono inchiodato alla poltrona come un Cristo in croce dall’esperto di turno che sciorina terrore con l’utilizzo di termini che non conoscevo e che mai avrei pensato potessero trovare spazio nel nostro vocabolario quotidiano. Riprendo il ‘comando del telecomando’ e cerco conforto nei canali a pagamento, sperando di dimenticare l’angoscia creatami dalle immagini delle televisioni generaliste. È una vana speranza e la rapida escursione sulla programmazione mi propone un bouquet granguignolesco: film scelti e programmati da Lucifero in persona; si va da Resident Evil di Kinji Fukasaku, che ci propone una storia angosciante, incentrata su un virus che contagia l’aria di un laboratorio e per insipienza dell’esercito sfugge al controllo e contagia il mondo, a Virus Letale di Wolfgang Petersen, che ci mostra la lotta degli scienziati contro un virus trasmesso attraverso le scimmie, per non parlare di 28 giorni dopo di Danny Boyle, L’esercito delle 12 scimmie di Terry Gilliam, Ultimo rifugio: Antartide di Kinji Fukasaku, Light of my life di Casey Affleck, Contagion di Steven Soderbergh, che ci proiettano violentemente in un mondo in bilico tra sopravvivenza ed estinzione di massa. Vengo shakerato da un cocktail di virus e cerco di aggrapparmi disperato a quel telecomando che mi ha proiettato in un futuro senza speranza. Mi vengono in mente i cori condominiali e gli appuntamenti alle finestre per cantare le nostre speranze, e la scritta “Andrà tutto bene!” postata in ogni immagine o video circolati via internet, e mi sento gelare il sangue perché la realtà non lascia molto margini alla speranza. Pigio il tasto che annulla quell’elenco di tragedie e barcollo alla ricerca di una risposta a quel profluvio di iettature catodiche. Volgo lo sguardo e ritrovo un oggetto che avevo trascurato nella speranza che la tecnologia avesse più risposte dell’uomo sul nostro futuro, sulla nostra vita. Quell’oggetto, che affonda profonde radici nel lontano passato dell’umanità e che ha permesso il trasferimento del sapere di generazione in generazione, facilitando ovviamente anche l’arrivo dell’intelligenza artificiale, che poco sembra incidere nella morbilità del nuovo virus, mi fa capolino silenzioso dallo scaffale. Guardo con rinnovato amore quell’oggetto che troppi avevano dato per spacciato e mi unisco alla previsione di Umberto Eco e Jean-Claude Carrière: “Non sperate di liberarvi dei libri.” Lo guardo con tutto l’affetto che può provare chi in esso ha trovato linfa per la crescita e con uno sguardo circolare visito il sapere che fodera le pareti della mia casa con sguardo riconoscente. Non ho bisogno di una tastiera che mi consenta di viaggiare nei secoli e vivere le migliaia di vite di altri. Ne prendo uno a caso e lo rigiro tra le mani: ne sento la vita fluire da quelle parole che vengono da lontano, che hanno sfidato indenni guerre, terremoti, rivolte, pestilenze. Sprofondo in poltrona, leggo e vivo. Gianni Avorio
La dissonanza.
Al tempo del Covid-19, al tempo della vita non vita, è possibile che vecchi ricordi, dimenticati in qualche recesso della memoria, possano riemergere dall’oblio in cui erano precipitati. Frequentavo le scuole elementari, forse la quarta o la quinta, e dovevo essere un alunno particolarmente vivace se il maestro mi aveva messo al primo banco, proprio di lato alla cattedra, di fronte alla grande carta geografica dell’Italia, e alla portata della sua temibile bacchetta di legno. Il mio maestro era un giovane forse al suo primo incarico: una figura non molto alta, di corporatura media, fasciata da un abito doppio petto, forse di colore marrone, la camicia bianca e l’immancabile cravatta dal nodo posticcio, quelle che non ti costringono a rifarlo ogni volta. Ricordo la sua faccia rotonda sovrastata da una massa di capelli precocemente incanutiti, riavviati con cura all’indietro; due labbra carnose che si aprivano in un sorriso accattivante, dolce; due occhi color nocciola, mobilissimi, penetranti. Poggiata sulla cattedra, la temuta bacchetta di legno che gli conferiva un’aria di improbabile severità. Quando la mia attenzione non era calamitata dalla voce suadente del maestro e dalla sua sempre incombente bacchetta, il mio sguardo si posava inevitabilmente sulla grande carta geografica. Più la guardavo e più mi sembrava di cogliere una qualche dissonanza, come una disarmonia, di cui non coglievo né il senso, né da chi o da cosa fosse dissonante. Per quanti sforzi facessi e quanto più il mio sguardo si posasse su quella carta geografica, più cresceva il disagio, l’inquietudine, forse anche la rabbia per non riuscire a cogliere in quell’immagine un qualcosa che a me sfuggiva. Guardavo la Sardegna che era colorata con lo stesso colore dell’Italia ma di un colore diverso da quello della Corsica. Guardavo la Corsica che era colorata di un colore diverso da quello della Sardegna e dell’Italia, ma dello stesso colore di un lembo di Francia che si intravvedeva in alto a sinistra della cartina. Il mio sguardo si posava ancora sulla Sardegna e non potevo non notare che essa era lontana, distante, dall’Italia, ma allo stesso tempo era vicinissima alla Corsica, che a sua volta era assai lontana dalla Francia. Inevitabilmente finivo per farmi la stessa domanda: ma non sarebbe più logico che la Sardegna fosse colorata dello stesso colore della Corsica? Non sarebbe più sensato che due isole al centro del mare Mediterraneo, tra loro assai vicine, fossero come un tutt’uno, come una cosa unica? E comunque qualcosa di diverso rispetto all’Italia e alla Francia? La sensazione di disarmonia diventava ancora più stridente quando pensavo a mia madre. Era, infatti, nata in Corsica, a Propriano, ai primi del secolo scorso. Per tanti anni l’ascendenza francese è stata per me motivo di un incomprensibile orgoglio: la vivevo come un elemento di distinzione che mi rendeva diverso dai miei compagni di classe. Nelle mie fantasticherie immaginavo mia madre figlia di esuli italiani, scappati dall’isola perché considerati dei pericolosi eversivi: di volta in volta assumevano le sembianze di temibili carbonari o di tenebrosi mazziniani o addirittura di focosi garibaldini. Poi ci pensava il maestro a riportarmi con i piedi per terra e a ricordarmi che l’età dei miei genitori mal si conciliava con i tempi della storia. La mia fervida fantasia non si arrendeva così facilmente e allora i miei nonni assumevano i panni di pericolosi anarchici scappati in Francia per compiere qualche regicidio in nome di una libertà assoluta o molto più spesso diventavano dei militanti socialisti senza Dio che, dopo aver capeggiato le prime lotte contadine in Gallura, erano stati costretti a rifugiarsi in Francia. A distanza di anni, la presenza di due isole contigue, la Sardegna e la Corsica, divise da un braccio di mare, unite da comuni vincoli storici e culturali, e persino da una lingua molto simile, innaturalmente separate all’interno di due Stati diversi, rimane, per me, ancora oggi, una inesplicabile dissonanza. Chissà perché, al tempo del coronavirus, al tempo delle vite sospese, le disarmonie appaiono ancora più stridenti. Massimo Dadea