Il peso della responsabilità
In questi giorni tanto drammatici, nella costrizione della clausura necessaria, sono le cronache quotidiane che ci obbligano a riflettere sul peso delle responsabilità soggettive, oggettive, collettive. La riflessione che propongo parte da come credo si debba gestire la responsabilità soggettiva. Nessuno di noi sa, preventivamente, se può essere o diventare involontariamente portatore di Covid 19. Così, nel dubbio, segue l’obbligo morale che deve guidarlo nei confronti della famiglia, degli amici, della collettività: tutela se stesso per non danneggiare gli altri. Questa responsabilità diventa, contemporaneamente, soggettiva ed oggettiva per tutto il personale sanitario che pone il massimo impegno nell’aiutare i contagiati: tutelare se stessi non solo e non tanto per non danneggiare, ma soprattutto per soccorrere la collettività. Di tutt’altro segno tanti sproloqui che, apparentemente rivolti a favorire le comunità, creano in realtà dubbi, conflitti in nome di un odioso opportunismo personale. In altre parole gravi danni. Penso ad esempio alle parole pronunciate da chi, contrapponendosi di fatto alle modalità e all’intensità del pregare di Papa Francesco (Piazza San Pietro deserta, la chiesetta di Santa Marta) stravolge le indicazioni non solo religiose, ma anche sanitarie, suggerendo di aprire le chiese per Pasqua. Responsabilità o il suo opposto? Questo, sinteticamente, il quadro all’interno del quale io inserisco il mio modo di intendere la scrittura del giornalista e dello scrittore. Il mio destinatario è sempre e comunque un concittadino per il quale svolgo una funzione delicata. A chi mi legge o ascolta devo mandare messaggi utili a lui, non finalizzati a terzi. La mia osservazione della realtà, avendo la possibilità di accedere a fonti che i miei utenti o lettori non hanno, deve essere approfondita e l’analisi che ne propongo deve essere il più possibile oggettiva. Questo metodo di lavoro, fondamentale per il giornalista, è applicabile alla scrittura narrativa? Io ne sono un convinto assertore. La base di partenza è la stessa: la documentazione. Ma spesso questa, per i limiti oggettivi che derivano dal modo in cui può essere acquisita (da magistratura, forze dell’ordine, scritti privati etc.) diventa parziale e comunque limitante: dove arriva il documento ti devi fermare. Come superare questo limite, questa barriera? Con uno sguardo rivolto non soltanto ed esclusivamente ai documenti, ma al mondo in cui una vicenda viene inserita, ai personaggi, alla loro psicologia, alle relazioni umane. Così la prima parte dei miei romanzi è sempre rivolta a mettere a disposizione del lettore tutte le informazioni di base su cui, poi, elaborerò gli sviluppi e la conclusione. In questo modo non posso e non voglio ingannarlo, ma voglio che sappia in qual modo io sviluppo la mia narrazione. Anche quando la costruzione avviene intorno ad uno soggetto completamente inventato da me, l’elaborazione degli elementi costitutivi avviene seguendo una rigida etica interpretativa in modo che quel che scrivo diventi sempre e comunque testimonianza. Così il mio essere scrittore si regge sulle fondamenta costruite diventando giornalista del Servizio Pubblico. Certo, forse il mio codice etico mi costringe in ambiti vincolanti, ma non potrei fare altrimenti. Tutto questo nasce dalla mia responsabilità soggettiva, ma se le mie storie diventano strumento utile per la riflessione del lettore, forse può considerarsi anche responsabilità oggettiva. Ottavio Olita
Serghei, Vania e…le conchiglie: diario di un’adozione
Luglio 2004
…..il mio primo atto da assessore ebbe ben poco di istituzionale: dovetti infatti correre all’aeroporto ad accogliere Serghei, il nostro bambino bielorusso che, dopo un anno di lontananza, avrebbe trascorso due mesi con noi nell’ambito del progetto di accoglienza dei bambini colpiti dalla tragedia di Chernobyl. La storia di Serghei e della sua travagliata adozione si intersecherà sino all’ultimo con l’esperienza di assessore. Un bambino intelligente, sensibile, testardo ed orgoglioso come solo un sardo può essere, che tanto ha sofferto nella sua breve esistenza. Serghei aveva allora nove anni e viveva in un istituto. Oggi ne ha quattordici e nel frattempo alla sua vicenda si è aggiunta, da qualche anno, quella del fratellino Vania.
Non fu facile spiegare a Serghei che, da appena poche ore, era intervenuta nella mia vita una novità importante. Così come non fu facile spiegargli in che cosa consisteva il lavoro di assessore. Quello che capì immediatamente fu che non avrei più fatto il medico, che non avrei, almeno per i successivi cinque anni, indossato il camice e non sarei andato tutte le mattine in ospedale. La sua reazione mi lasciò sconcertato: non riusciva a capacitarsi di come avessi potuto lasciare un lavoro così importante, prestigioso, utile, per un incarico oscuro che intuiva avesse a che fare con la politica – si vede che neanche in Bielorussia i politici godono di una buona fama – e che avrei dovuto collaborare con un Presidente. Questo del Presidente lo colpì molto, forse perché nella loro terra il termine Presidente si identificava – e purtroppo continua ad identificarsi – con un signore massiccio, dai folti baffi, un vistoso riporto di capelli e dai modi sbrigativi ed autoritari: uno degli ultimi arnesi della vecchia nomenclatura sovietica, che da decenni governa con metodi non proprio democratici. Non me lo ha mai perdonato e tutti gli anni, puntualmente, al suo rientro mi ripeteva, sempre più sconsolato, la stessa domanda: “Quando riprendi a fare il medico?”. Nella sua innocente diffidenza, Serghei aveva intuito che quella decisione mi era costata non poco e che l’avevo accettata solo dopo un travaglio profondo…
Agosto 2004
…ma la difficoltà nei rapporti con il Presidente non sfuggì a Serghei. La sofferenza e il dolore per un evento drammatico, tragicamente vissuto in tenera età, associato alla durezza e alla precarietà della vita nell’internato, avevano acuito la sua sensibilità. Quando rientravo nelle sere di quel caldo ed afoso mese di agosto, Serghei mi scrutava con attenzione e quindi sbottava: “ Anche oggi hai fatto a pugni con il Presidente, te lo dicevo che i presidenti sono tutti cattivi, non dovevi smettere di fare il medico, ben ti sta”; e come la vita difficile dell’internato gli aveva insegnato, le dispute si risolvono con metodi spicci: “Domani vado io dal Presidente e lo prendo a pugni, così la smette di romperti le scatole!”. Nei mesi successivi, al suo rientro in Bielorussia, tutte le volte che parlavamo al telefono, la prima domanda era: “Come va con il Presidente?”. Ho dovuto impiegare del tempo per spiegargli che il Presidente Soru era cosa diversa dal suo Presidente Lukascenko…
Luglio 2006
…nel frattempo continuava l’odissea legata alla pratica di adozione dei nostri bambini bielorussi, e continuava il calvario di Serghei, a cui si era aggiunto nel frattempo il fratellino Vania: pochi giorni ad agosto e a Natale con i suoi genitori italiani e la restante parte dell’anno nell’inferno dell’internato in Bielorussia, vissuto tra un frustrante stillicidio di speranza e di delusione. Per anni la nostra è stata per Serghei, e poi per Vania, una famiglia per qualche settimana. Per troppe volte ancora Serghei ci avrebbe ripetuto la stessa, martellante domanda: “Perché il mondo degli adulti si accanisce contro di me e mi impedisce di rimanere con i miei genitori, gli unici che ho? Perché mi si vuole privare di quel calore umano, di quelle carezze, di quelle coccole che ho scoperto con grande ritardo e che per anni mi sono state negate?”. E per troppe volte ancora la sua invettiva sarebbe rimasta senza risposta. Per troppe volte ancora, Serghei sarebbe stato costretto a raccogliere, nei giorni assolati di agosto, le amate conchiglie, il simbolo, ai suoi occhi, della diversità tra l’Italia e la Bielorussia, che poi con cura avrebbe riposto nel cassetto, per riprenderle in mano a Natale…
Dicembre 2008
…intanto l’egoismo e l’ottusità dei cosiddetti adulti continuava ad accanirsi contro i tanti bambini bielorussi e i loro “genitori” italiani. Che rabbia la stupidità di quel governo che per tacitare il proprio orgoglio nazionale, non esita a calpestare i sogni, le speranze, dei propri figli più sfortunati. Dovrebbe essere risparmiato, a chi ha tanto sofferto per l’assenza dei propri genitori naturali, l’ulteriore dolore per una situazione che ai loro occhi appare incomprensibile: quali motivazioni potranno mai giustificare il dolore, la rabbia, la frustrazione, per un’attesa che rischia di consumare spicchi di felicità impagabili, spicchi di tempo rubati agli affetti di una famiglia vera? Così come dovrebbe essere risparmiato a chi già soffre per una pratica di adozione che sembra non avere mai fine, l’ulteriore sofferenza per dei figli che sente ancora di più come “propri”, perché il legame d’amore che li unisce è il frutto di un riconoscimento reciproco, è il fondamento di qualsiasi famiglia, sia essa naturale o meno. Ma a volte alla stupidità e all’egoismo dei “grandi”, si contrappongono il buonsenso e la concretezza dei più piccoli. Ed infatti Serghei non ha mai smesso di rivolgerci la sua domanda più terribile: “Quando sarò il vostro ‘figlio’ per sempre?”, sapendo che la risposta non poteva essere nella disponibilità dei “suoi” genitori, ma sarebbe dipesa dalla generosità e dalla sensibilità di quegli adulti che detengono nelle loro mani il grande potere di strappare, con un semplice tratto di penna, un sorriso gioioso a chi tanto credito ha accumulato nel confronti della vita…
Aprile 2009
…il primo aprile, due mesi dopo la fine della mia avventura politica, il Tribunale dei minori della Regione di Brest ha emesso la sentenza che autorizza l’adozione dei nostri ragazzi bielorussi. Siamo diventati, dopo una trafila durata sei anni, i genitori di Serghei e di Vania. La prima cosa che mi ha chiesto Serghei, appena siamo rientrati in Sardegna dalla Bielorussia, è stata di accompagnarlo al mare, alla spiaggia che lo ha ospitato in tutti questi anni. Aveva con sé una voluminosa scatola di cartone. Una volta giunti in riva al mare ha rovesciato il contenuto della scatola sulla sabbia: decine e decine di conchiglie colorate che aveva raccolto, pieno si speranza, nei sei anni della sua lunga odissea. E poi, senza rimpianti, ma con un pizzico di emozione, le ha restituite alla sabbia e al mare. Al suo mare.
Ps:
Ora Serghei ha ventisei anni e lavora nei pressi di Edimburgo, in Scozia, in un grande Resort, dove sta trascorrendo la quarantena dovuta al Covid-19. Vania, invece, ha vent’anni e frequenta l’Istituto Europeo di Design a Cagliari, e trascorre la sua quarantena insieme a noi, in famiglia. Massimo Dadea